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Blog della Quinta A 2008/2009 -
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Il processo attraverso cui un mosto diviene vino è la fermentazione alcolica. Si tratta di una reazione chimica, in cui gli zuccheri vengono convertiti dai lieviti in alcol etilico, e prodotti secondari, un processo che può essere riassunto dal seguente schema.Durante tale trasformazione l'alcol etilico che si svolge è pari al 60% dello zucchero presente nel mosto. Ne deriva che un mosto con un grado zuccherino pari al 20%, al termine della fermentazione origina un vino contenente 120 ml/l di alcol etilico, ossia 12 gradi alcolici. I prodotti secondari della fermentazione sono glicerina, diacetile, acido succinico, acido malico, acido acetico, aldeide acetica.Il mosto, ottenuto dopo diraspapigiatura delle uve, rimane a contatto con le bucce e i vinaccioli (le vinacce) per un periodo di tempo variabile in funzione dell'effetto desiderato. Se la vinificazione viene fatta avvenire lasciando fermentare il mosto in presenza delle vinacce per un periodo di tempo relativamente lungo (7-15 giorni) si utilizza il termine "vinificazione con macerazione" o alternativamente si parla di "vinificazione in rosso". Quest'ultima definizione si collega al fatto che le sostanze coloranti, presenti nelle bucce, vengono estratte nel tempo sfruttando l'azione solubilizzante dell'alcol che viene prodotto nel corso della fermentazioneEsistono al riguardo diverse tecniche utilizzate per migliorare il contatto delle vinacce, che tendono a galleggiare sul mosto formando il cosi detto "cappello", con il mosto sottostante:
a) follatura; azione meccanica esercitata sul cappello per immergerlo nel mosto (normalmente effettuata dal vignaiolo due volte al giorno);
b) rimontaggio; innaffiamento del capello dall'alto con il mosto prelevato dal basso del tino e rilanciato verso l'alto per mezzo di una pompa per liquidi;
c) fermentazione a cappello sommerso; introduzione nel tino di fermentazione di un graticcio che ostacoli l'affioratura delle vinacce sulla superficie del mosto con la formazione di un cappello che resta immerso nel mosto.
Al termine della fermentazione il vino nuovo, torbido e ricco di anidride carbonica, viene separato dalle sue vinacce mediante un travaso che prende il nome di svinatura; il vino nuovo o "fiore" viene destinato a seconda dei casi verso tini in acciaio o botti in legno, mentre le vinacce vengono sottoposte alla torchiatura dalla quale si ottiene il vino torchiato. Il vino torchiato, meno nobile di quello ottenuto dalla svinatura, può essere o riunito con il vino "fiore" o utilizzato come prodotto finito di bassa qualità.
Le sostanze responsabili del colore dei vini (antociani) sono per lo più presenti sulle bucce degli acini e nelle parti solide (raspi e vinaccioli) e vengono estratte essenzialmente nel corso della macerazione, ad opera dell'alcol che si sviluppa durante la fermentazione. Il processo di fermentazione in assenza di vinacce viene denominata "vinificazione in bianco". Con questa tecnica è possibile ottenere vini bianchi da uve di qualunque tipo: molti champagne e spumanti si producono da uvaggi comprendenti uve bianche e rosse. Gli champagne ottenuti da uvaggi di uve bianche vengono chiamati "blanc de blancs", per indicare la loro origine. In un processo di vinificazione in bianco dalle uve pigiate, private di raspi bucce e vinaccioli, si ottiene il "mosto fiore" che viene lasciato fermentare per un periodo di tempo di 10-20 giorni ad una temperatura inferiore ai 20°C. In alcuni casi, il mosto viene lasciato a contatto con le vinacce per un breve periodo, 12-36 ore, ad una temperatura di 7-10°C. Si tratta di un procedimento, detto criomacerazione, che consente di aumentare l'estrazione di profumi ed aromi contenuti nelle bucce, limitando nel contempo l'estrazione dei tannini. L'applicazione delle tecnologie più moderne e sofisticate, che nel campo enologico si traducono in impianti di termostatazione dotati di sorgenti fredde molto potenti ed affidabili, consentono ormai anche la sperimentazione di tecniche "estreme". Nella produzione di vini bianchi "a tiratura limitata" si trovano ormai vini ottenuti al termine di criomacerazioni a temperature prossime agli 0° C, che consentono di prolungare la macerazione sino a otto dieci giorni. I risultati sono eccellenti e consentono la realizzazione di vini bianchi con una ampiezza olfattiva e una struttura che con le tecniche tradizionali sono di fatto irraggiungibili.I vini bianchi dotati di struttura e caratterizzati da una presenza significativa di tannini si prestano molto bene, ad un affinamento in botti di legno di piccole dimensione (225-400 litri) per periodi compresi tra i 3 mesi ed 1 anno. Si ottengono vini bianchi che per ampiezza olfattiva, corpo e lunghezza di gusto sono in grado di regalare sensazioni molto piacevoli, a volte, inaspettate.
Nonostante la pigiatura dell'uva - l'operazione che consente la produzione del mosto - sia semplice nella sua forma, in realtà è opportuno utilizzare strumenti idonei. In commercio esistono diversi tipi di pigiatrici meccaniche che consentono di pigiare grosse quantità di uva in tempi piuttosto brevi. La rapidità con la quale si pigia l'uva è in effetti di fondamentale importanza, poiché dal momento del raccolto al momento nel quale si inizia la produzione del mosto dovrà passare il minor tempo possibile. Uno dei problemi principali nella produzione casalinga del vino è rappresentata dalla procedura di separazione dei raspi dall'uva, un'operazione che si ritiene indispensabile per la produzione dei vini bianchi. La pigiatura dell'uva dovrebbe essere in effetti preceduta dalla diraspatura, cioè la separazione del raspo - la parte legnosa centrale del grappolo al quale sono attaccati gli acini - così da non conferire quantità eccessive di tannini ruvidi al mosto. A tale proposito è bene ricordare che in certi casi, in particolare quando le uve sono carenti di tannini, la diraspatura può essere evitata, tuttavia è sempre consigliabile eseguirla nella produzione dei vini bianchi in modo da assicurare maggiore finezza ed eleganza. Questa operazione può essere eseguita mediante un'apposita macchina - detta diraspatrice - tuttavia è più conveniente e pratico utilizzare una pigio-diraspatrice, cioè una macchina che oltre a provvedere alla separazione degli acini dal raspo, esegue anche la pigiatura dell'uva. In commercio esistono diversi tipi di pigio-diraspatrici e non tutte sono uguali. Una buona pigio-diraspatrice, oltre a consentire la separazione del raspo, dovrà pigiare l'uva in modo piuttosto delicato, senza eccessiva forza e in modo tale da non lacerare eccessivamente le bucce evitando la frantumazione dei vinaccioli. Il lavoro svolto da una buona pigio-diraspatrice è facile da riconoscere: le bucce sono integre e presentano una sola spaccatura laterale e i vinaccioli sono perfettamente integri. La frantumazione dei vinaccioli va evitata soprattutto nella produzione per i vini bianchi, poiché cedono quantità eccessive di tannini al mosto. Bucce più integre faciliteranno inoltre l'operazione di sgrondamento del mosto, cioè la separazione delle parti solide dalla parte liquida. A seconda del tipo di vino che si intende produrre, il mosto va trattato in modo opportuno. Nel caso di vino bianco, si procederà con lo sgrondamento, cioè all'immediata separazione delle bucce e dei vinaccioli così da limitare la cessione di polifenoli. Per il mosto destinato alla produzione di vino rosso, le bucce sono invece lasciate in macerazione per tutto il periodo della fermentazione, o fino a quando non si raggiunge il grado di colorazione e la quantità di tannini desiderata. Subito dopo la pigiatura, a causa del contatto con l'aria e dei lieviti naturalmente presenti nelle bucce, il mosto inizia a ossidarsi e a fermentare. L'ossidazione dovrà essere evitata in ogni caso - così come nel vino - mentre nel caso della produzione di vino bianco, è opportuno ritardare la fermentazione così da consentire un'adeguata sedimentazione delle parti solide presenti nel mosto. Nella produzione di vino bianco è infatti auspicabile l'utilizzo di mosto limpido e privo di sostanze solide - costituite dai residui della polpa e delle bucce - in modo da ottenere un vino più limpido e più stabile. L'anidride solforosa si rivela utile e fondamentale già subito dopo la pigiatura dell'uva poiché, grazie ai suoi effetti, evita dannose ossidazioni, opera un'opportuna selezione dei lieviti e blocca temporaneamente la loro azione. Queste due qualità saranno indispensabili per i mosti destinati alla produzione di vino bianco, poiché bloccando l'azione dei lieviti e svolgendo una blanda azione chiarificante, si consentirà la sedimentazione delle parti solide presenti nel mosto ritardando la fermentazione. Nonostante l'anidride solforosa abbia degli effetti indesiderati sull'organismo, le quantità tipicamente utilizzate e ammesse in enologia sono da considerarsi relativamente sicure, tuttavia è sempre opportuno utilizzare sempre e comunque la quantità minima indispensabile. Nella produzione casalinga di vino, il metodo più semplice e affidabile di addizione di anidride solforosa è rappresentato dall'impiego di metabisolfito di potassio, semplice da pesare e da aggiungere. È invece sconsigliabile il poco pratico impiego di dischi di zolfo da bruciare nei contenitori, poiché questo metodo non consente di stabilire esattamente le dosi di anidride solforosa aggiunta al mosto o al vino. Utilizzando il metabisolfito di potassio, è opportuno ricordare che questo contiene circa il 55% di anidride solforosa, pertanto un grammo di metabisolfito di potassio produce 550 mg di anidride solforosa. Per quanto riguarda il mosto, le quantità di metabisolfito di potassio da impiegare possono variare da 5 a 30 grammi per ettolitro, dosi variabili in funzione della qualità e della sanità delle uve. Nel caso di uve sane e senza difetti, sarà sufficiente impiegare da 5 a 10 grammi per ettolitro di metabisolfito di potassio, mentre con uve alterate da muffa, o peggio ancora, da marciume, si arriverà all'impiego di 20-30 grammi per ettolitro. In condizioni normali, l'impiego di 10-15 grammi per ettolitro è da considerarsi corretto e tale da garantire una buona fermentazione. È comunque opportuno ricordare che maggiore è la dose di anidride solforosa utilizzata nel mosto e più lento risulterà essere l'inizio della fermentazione alcolica. Inoltre, quantità eccessive di metabisolfito di potassio (50-60g/hl e oltre) inibiscono completamente la fermentazione del mosto poiché in questo modo si eliminano tutti i microorganismi presenti, compresi i lieviti. L'aggiunta di anidride solforosa, nella forma di metabisolfito di potassio o di altri metodi, va eseguita in accordo al tipo di mosto da trattare. Poiché l'anidride solforosa svolge anche un'azione solvente in certi componenti presenti nella buccia degli acini d'uva - in particolare le sostanze coloranti e i polifenoli - si sconsiglia l'addizione, praticata da molti, direttamente sulle uve bianche poiché questo provocherebbe un poco desiderabile ingiallimento del mosto. Nel mosto prodotto da uve bianche è sempre opportuno aggiungere l'anidride solforosa dopo la fase di sgrondamento, cioè dopo avere provveduto a separare le bucce dal mosto. In ogni caso, indipendentemente dal tipo di vino da produrre - sia bianco, sia rosso - è preferibile aggiungere l'anidride solforosa direttamente al mosto provvedendo a mescolare uniformemente la massa. Il contatto con le bucce è indispensabile nei mosti da uve rosse poiché saranno proprio queste a conferire colore al vino, mentre nel vino bianco vanno eliminate subito dopo la pigiatura. La parte sgrondata può essere quindi torchiata e aggiunta al mosto, oppure utilizzata per la produzione di vini di minore pregio.
Questo blog nasce come approfondimento dell'attività didattica, relativa alla materia dell'ecologia applicata. Il blog, portato avanti dagli studenti dell'ultimo biennio, negli A.S. 2007/2008 e 2008/2009 dell'Istituto Professionale per l'Agricoltura e l'Ambiente di Olbia, tratta argomenti inerenti il mondo dell'agricoltura e dell'ambiente.
Buona lettura!
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