venerdì 19 dicembre 2008

Cicalina verde (Empoasca vitis)

Classe: Insetti
Ordine: Rincoti
Famiglia: Cicadellidi

  • Identificazione, danno e ciclo biologico
L'insetto adulto è di piccole dimensioni (circa 3 mm), di colore verde chiaro con sfumature dorate. Le forme giovanili sono più chiare, di forma affusolata e, non avendo ali, si spostano velocemente correndo, specialmente se solleccitate. Il danno è determinato dalle punture trofiche che effettuano soprattutto nello stadio giovanile; queste punture si notano sulle nervature delle foglie che le evidenziano con necrosi marginali di colore rossastro, circostante da un alone giallastro, e con filloptosi anticipata; i margini fogliari necrosati disseccano e si ripiegano verso il basso. I maggiori danni sono determinati dagli attacchi in piena estate (seconda generazione) in corrispondenza di andamenti climatici caldo-asciutti. Da ricordare inoltre che lòa cicalina gialla i cui adulti sono di colore giallastro con bande color arancio poste longitudinalmente sul dorso. Le foglie da loro attaccate evidenziano macchie bianche sparse sul lembo e necrosi nei casi più gravi. Le due cicaline svernano da adulto e compiono tre generazioni all'anno.

  • Lotta
Generalmente gli interventi chimici sono mirati contro la seconda generazione; si effettua una lotta guidata mediante campionamento sulle foglie, mediane e basali, a partire dalla prima metà di luglio.

Lotta contro Lymantria dispar

Il problema fitosanitario principale dei boschi di quercia da sughero in Sardegna è costituito dai Lepidotteri defogliatori Lymantria dispar, Malacosoma neustria e Tortrix viridana. Gli attacchi di questi insetti provocano fondamentalmente una riduzione della biomassa fotosintetica che si traduce in un'alterazione delle condizioni fisiologiche della pianta che ha ripercussioni anche sulla produzione di ghiande e sughero. L'entità del danno provocato dipende dalla densità larvale, che in certi anni può arrivare a livelli tali da provocare la completa defogliazione di interi comprensori forestali. Questi insetti sono soggetti negli anni a fluttuazioni di densità. Nel caso di L. dispar e di M. neustria, in alcune aree della Sardegna, le fluttuazioni sono cicliche e alquanto regolari presentando i massimi di defogliazione ogni 9 anni circa. La T. viridana, al contrario, manifesta una fluttuazione di tipo irregolare con defogliazioni che possono verificarsi ad intervalli superiori ai 10 anni. Per l'adozione delle strategie di controllo sono attualmente disponibili diversi metodi di campionamento, basati sul conteggio delle ovature, sulla cattura degli adulti mediante trappole luminose e a feromoni, sul campionamento delle larve e sulla valutazione visiva delle superfici defogliate. La lotta può essere affrontata sia mediante l'impiego di insetticidi (solo in particolari situazioni e dopo un'attenta scelta del principio attivo), sia attraverso mezzi biotecnici, quali per esempio, i feromoni ma, soprattutto, con la lotta microbiologica basata sull'utilizzo del Bacillus thuringiensis subsp. kurstaki.

mercoledì 17 dicembre 2008

Vinificazione in rosso


Il processo attraverso cui un mosto diviene vino è la fermentazione alcolica. Si tratta di una reazione chimica, in cui gli zuccheri vengono convertiti dai lieviti in alcol etilico, e prodotti secondari, un processo che può essere riassunto dal seguente schema.Durante tale trasformazione l'alcol etilico che si svolge è pari al 60% dello zucchero presente nel mosto. Ne deriva che un mosto con un grado zuccherino pari al 20%, al termine della fermentazione origina un vino contenente 120 ml/l di alcol etilico, ossia 12 gradi alcolici. I prodotti secondari della fermentazione sono glicerina, diacetile, acido succinico, acido malico, acido acetico, aldeide acetica.Il mosto, ottenuto dopo diraspapigiatura delle uve, rimane a contatto con le bucce e i vinaccioli (le vinacce) per un periodo di tempo variabile in funzione dell'effetto desiderato. Se la vinificazione viene fatta avvenire lasciando fermentare il mosto in presenza delle vinacce per un periodo di tempo relativamente lungo (7-15 giorni) si utilizza il termine "vinificazione con macerazione" o alternativamente si parla di "vinificazione in rosso". Quest'ultima definizione si collega al fatto che le sostanze coloranti, presenti nelle bucce, vengono estratte nel tempo sfruttando l'azione solubilizzante dell'alcol che viene prodotto nel corso della fermentazioneEsistono al riguardo diverse tecniche utilizzate per migliorare il contatto delle vinacce, che tendono a galleggiare sul mosto formando il cosi detto "cappello", con il mosto sottostante:

a) follatura; azione meccanica esercitata sul cappello per immergerlo nel mosto (normalmente effettuata dal vignaiolo due volte al giorno);

b) rimontaggio; innaffiamento del capello dall'alto con il mosto prelevato dal basso del tino e rilanciato verso l'alto per mezzo di una pompa per liquidi;

c) fermentazione a cappello sommerso; introduzione nel tino di fermentazione di un graticcio che ostacoli l'affioratura delle vinacce sulla superficie del mosto con la formazione di un cappello che resta immerso nel mosto.

Al termine della fermentazione il vino nuovo, torbido e ricco di anidride carbonica, viene separato dalle sue vinacce mediante un travaso che prende il nome di svinatura; il vino nuovo o "fiore" viene destinato a seconda dei casi verso tini in acciaio o botti in legno, mentre le vinacce vengono sottoposte alla torchiatura dalla quale si ottiene il vino torchiato. Il vino torchiato, meno nobile di quello ottenuto dalla svinatura, può essere o riunito con il vino "fiore" o utilizzato come prodotto finito di bassa qualità.

Vinificazione in bianco


















Le sostanze responsabili del colore dei vini (antociani) sono per lo più presenti sulle bucce degli acini e nelle parti solide (raspi e vinaccioli) e vengono estratte essenzialmente nel corso della macerazione, ad opera dell'alcol che si sviluppa durante la
fermentazione. Il processo di fermentazione in assenza di vinacce viene denominata "vinificazione in bianco". Con questa tecnica è possibile ottenere vini bianchi da uve di qualunque tipo: molti champagne e spumanti si producono da uvaggi comprendenti uve bianche e rosse. Gli champagne ottenuti da uvaggi di uve bianche vengono chiamati "blanc de blancs", per indicare la loro origine.
In un processo di vinificazione in bianco dalle uve pigiate, private di raspi bucce e vinaccioli, si ottiene il "mosto fiore" che viene lasciato fermentare per un periodo di tempo di 10-20 giorni ad una temperatura inferiore ai 20°C. In alcuni casi, il mosto viene lasciato a contatto con le vinacce per un breve periodo, 12-36 ore, ad una temperatura di 7-10°C. Si tratta di un procedimento, detto criomacerazione, che consente di aumentare l'estrazione di profumi ed aromi contenuti nelle bucce, limitando nel contempo l'estrazione dei tannini. L'applicazione delle tecnologie più moderne e sofisticate, che nel campo enologico si traducono in impianti di termostatazione dotati di sorgenti fredde molto potenti ed affidabili, consentono ormai anche la sperimentazione di tecniche "estreme". Nella produzione di vini bianchi "a tiratura limitata" si trovano ormai vini ottenuti al termine di criomacerazioni a temperature prossime agli 0° C, che consentono di prolungare la macerazione sino a otto dieci giorni. I risultati sono eccellenti e consentono la realizzazione di vini bianchi con una ampiezza olfattiva e una struttura che con le tecniche tradizionali sono di fatto irraggiungibili.I vini bianchi dotati di struttura e caratterizzati da una presenza significativa di tannini si prestano molto bene, ad un affinamento in botti di legno di piccole dimensione (225-400 litri) per periodi compresi tra i 3 mesi ed 1 anno. Si ottengono vini bianchi che per ampiezza olfattiva, corpo e lunghezza di gusto sono in grado di regalare sensazioni molto piacevoli, a volte, inaspettate.

immagine tratta dal sito: www.antichivigneti.eu

Produzione del Mosto.

Nonostante la pigiatura dell'uva - l'operazione che consente la produzione del mosto - sia semplice nella sua forma, in realtà è opportuno utilizzare strumenti idonei. In commercio esistono diversi tipi di pigiatrici meccaniche che consentono di pigiare grosse quantità di uva in tempi piuttosto brevi. La rapidità con la quale si pigia l'uva è in effetti di fondamentale importanza, poiché dal momento del raccolto al momento nel quale si inizia la produzione del mosto dovrà passare il minor tempo possibile. Uno dei problemi principali nella produzione casalinga del vino è rappresentata dalla procedura di separazione dei raspi dall'uva, un'operazione che si ritiene indispensabile per la produzione dei vini bianchi. La pigiatura dell'uva dovrebbe essere in effetti preceduta dalla diraspatura, cioè la separazione del raspo - la parte legnosa centrale del grappolo al quale sono attaccati gli acini - così da non conferire quantità eccessive di tannini ruvidi al mosto. A tale proposito è bene ricordare che in certi casi, in particolare quando le uve sono carenti di tannini, la diraspatura può essere evitata, tuttavia è sempre consigliabile eseguirla nella produzione dei vini bianchi in modo da assicurare maggiore finezza ed eleganza. Questa operazione può essere eseguita mediante un'apposita macchina - detta diraspatrice - tuttavia è più conveniente e pratico utilizzare una pigio-diraspatrice, cioè una macchina che oltre a provvedere alla separazione degli acini dal raspo, esegue anche la pigiatura dell'uva. In commercio esistono diversi tipi di pigio-diraspatrici e non tutte sono uguali. Una buona pigio-diraspatrice, oltre a consentire la separazione del raspo, dovrà pigiare l'uva in modo piuttosto delicato, senza eccessiva forza e in modo tale da non lacerare eccessivamente le bucce evitando la frantumazione dei vinaccioli. Il lavoro svolto da una buona pigio-diraspatrice è facile da riconoscere: le bucce sono integre e presentano una sola spaccatura laterale e i vinaccioli sono perfettamente integri. La frantumazione dei vinaccioli va evitata soprattutto nella produzione per i vini bianchi, poiché cedono quantità eccessive di tannini al mosto. Bucce più integre faciliteranno inoltre l'operazione di sgrondamento del mosto, cioè la separazione delle parti solide dalla parte liquida. A seconda del tipo di vino che si intende produrre, il mosto va trattato in modo opportuno. Nel caso di vino bianco, si procederà con lo sgrondamento, cioè all'immediata separazione delle bucce e dei vinaccioli così da limitare la cessione di polifenoli. Per il mosto destinato alla produzione di vino rosso, le bucce sono invece lasciate in macerazione per tutto il periodo della fermentazione, o fino a quando non si raggiunge il grado di colorazione e la quantità di tannini desiderata. Subito dopo la pigiatura, a causa del contatto con l'aria e dei lieviti naturalmente presenti nelle bucce, il mosto inizia a ossidarsi e a fermentare. L'ossidazione dovrà essere evitata in ogni caso - così come nel vino - mentre nel caso della produzione di vino bianco, è opportuno ritardare la fermentazione così da consentire un'adeguata sedimentazione delle parti solide presenti nel mosto. Nella produzione di vino bianco è infatti auspicabile l'utilizzo di mosto limpido e privo di sostanze solide - costituite dai residui della polpa e delle bucce - in modo da ottenere un vino più limpido e più stabile. L'anidride solforosa si rivela utile e fondamentale già subito dopo la pigiatura dell'uva poiché, grazie ai suoi effetti, evita dannose ossidazioni, opera un'opportuna selezione dei lieviti e blocca temporaneamente la loro azione. Queste due qualità saranno indispensabili per i mosti destinati alla produzione di vino bianco, poiché bloccando l'azione dei lieviti e svolgendo una blanda azione chiarificante, si consentirà la sedimentazione delle parti solide presenti nel mosto ritardando la fermentazione. Nonostante l'anidride solforosa abbia degli effetti indesiderati sull'organismo, le quantità tipicamente utilizzate e ammesse in enologia sono da considerarsi relativamente sicure, tuttavia è sempre opportuno utilizzare sempre e comunque la quantità minima indispensabile. Nella produzione casalinga di vino, il metodo più semplice e affidabile di addizione di anidride solforosa è rappresentato dall'impiego di metabisolfito di potassio, semplice da pesare e da aggiungere. È invece sconsigliabile il poco pratico impiego di dischi di zolfo da bruciare nei contenitori, poiché questo metodo non consente di stabilire esattamente le dosi di anidride solforosa aggiunta al mosto o al vino. Utilizzando il metabisolfito di potassio, è opportuno ricordare che questo contiene circa il 55% di anidride solforosa, pertanto un grammo di metabisolfito di potassio produce 550 mg di anidride solforosa. Per quanto riguarda il mosto, le quantità di metabisolfito di potassio da impiegare possono variare da 5 a 30 grammi per ettolitro, dosi variabili in funzione della qualità e della sanità delle uve. Nel caso di uve sane e senza difetti, sarà sufficiente impiegare da 5 a 10 grammi per ettolitro di metabisolfito di potassio, mentre con uve alterate da muffa, o peggio ancora, da marciume, si arriverà all'impiego di 20-30 grammi per ettolitro. In condizioni normali, l'impiego di 10-15 grammi per ettolitro è da considerarsi corretto e tale da garantire una buona fermentazione. È comunque opportuno ricordare che maggiore è la dose di anidride solforosa utilizzata nel mosto e più lento risulterà essere l'inizio della fermentazione alcolica. Inoltre, quantità eccessive di metabisolfito di potassio (50-60g/hl e oltre) inibiscono completamente la fermentazione del mosto poiché in questo modo si eliminano tutti i microorganismi presenti, compresi i lieviti. L'aggiunta di anidride solforosa, nella forma di metabisolfito di potassio o di altri metodi, va eseguita in accordo al tipo di mosto da trattare. Poiché l'anidride solforosa svolge anche un'azione solvente in certi componenti presenti nella buccia degli acini d'uva - in particolare le sostanze coloranti e i polifenoli - si sconsiglia l'addizione, praticata da molti, direttamente sulle uve bianche poiché questo provocherebbe un poco desiderabile ingiallimento del mosto. Nel mosto prodotto da uve bianche è sempre opportuno aggiungere l'anidride solforosa dopo la fase di sgrondamento, cioè dopo avere provveduto a separare le bucce dal mosto. In ogni caso, indipendentemente dal tipo di vino da produrre - sia bianco, sia rosso - è preferibile aggiungere l'anidride solforosa direttamente al mosto provvedendo a mescolare uniformemente la massa. Il contatto con le bucce è indispensabile nei mosti da uve rosse poiché saranno proprio queste a conferire colore al vino, mentre nel vino bianco vanno eliminate subito dopo la pigiatura. La parte sgrondata può essere quindi torchiata e aggiunta al mosto, oppure utilizzata per la produzione di vini di minore pregio.

lunedì 15 dicembre 2008

Tecniche di uso dei regolatori dello sviluppo

Questo metodo di lotta biotcnologica si basa sulla possibilità di inferire sui processi dello sviluppo embrionale e postembrionale degli insetti, modificando l'equilibrio tra gli ormoni che regolano la muta e le varie fasi della metamorfosi.
Questi nuovi insetticidi "regolatori dello sviluppo" (Grow Regulator - G. R.) sono molto selettivi e svolgono la loro azione su due particolari metamolismi, caratteristici dello sviluppo degli insetti: la muta e la metamorfosi.
Questi due metabolismi sono regolati da due ormoni: l'ecdisone e la neotenina.
Il primo presiede alla muta permettendo il distacco dalla vecchia cuticola e di conseguenza
l'acrescimento lineare dell'insetto, modificandone la struttura.
Il secondo, chiamato ormone della giovinezza, mantiene l'insetto allo stadio giovanile, facendolo accrescere in volume e mantenendo inalterale le strutture.
Allo stato attuale della ricerca e della sperimentazione i composti a base di ecdisone ( soprattutto i fitoecdisoni isolati da alcuni vegetali, e che hanno evidenziato interessanti azioni sterilizzanti ed inibenti sul metamolismo di alcuni insetti) sono di difficile applicazione perchè non agiscono per contatto (non superano la barriera cuticolare) e pochi sono attivi per ingestione.
I composti a base di ormoni giovanili (neotenina e/o suoi derivati) hanno maggior successo perchè si sono rivelati attivi nei confronti delle larve, delle crisalidi, delle uova, degli embrioni ed infine sterilizzano le femmine che depongono uova poco fertili o completamente sterili, interferendo anche nella diapausa.
Attualmente i regolatori dello sviluppo utilizzati in agricoltura si possono raggruppare in due categorie:
1 regolatori dello sviluppo chitino - inibitori
(siglati C. S.I.) che agiscono sul rinnovamento della cuticola interagendo nella sintesi della chitina, negli stadi giovanili di alcuni insetti, interferendo sul metabolismo dell'ecdisone e quindi bloccando le mute; tra queste sostanze ricordiamo il Diflubenzuron, il Teflubenzuron, il Lufenuron, il Flufenoxuron (agisce anche su acari) , il Trifumuron, il Buprofezin (attivo su Rincoti ed alcuni Acari) ed il Cyromazine (attivo su Ditteri minatori di organi vegetali).
In questo gruppo di prodotti potrebbero essere annoverati anche alcune sostanze attive ad azioni acaricida che agiscono come chitino inibitori e inibitori della crescita, come l'Esitiazox ed il Clofentezine. Queste sostanze, inibendo la biosintesi della chitina, o interferendo nel deposito della stessa,impediscono il rinnovamento della vacchia coticola;inoltre dimostrano anche azione ovicida ed,in alcuni casi,azione sterilizzanti nei confronto delle femmine (Lepidotteri ),delle Psille e di alcuni altri Rincoti (eterometaboli).
2 regolatori di sviluppo o di crescita
che simulano l'azione di sostanze secrete dagli insetti,quali la neotenina; questi prodotti, che simulano l'azione dell'ormone della giovinezza vengono chiamati juvenoidi (J.H.A.).Fra questi ricordiamo il Fenoxycarb (sostanza attualmente non ammessa in Italia per il suo impato ambientale e la dubbia selettività) che agisce simulando l'azione della neotinina;quando lo stadio di un insetto è prossimo alla maturità (larva di ultima età) , la concentrazione di ormone giovanile decresce per consentire la metaforfosi; il Fenoxycarb agisce in questo momento mantenendo artificialmente elevato il tasso di neotenina bloccando la metamorfosi e provocando la morte dell'insetto; la stessa azione viene esplicata nei confronti delleuova impedendo l'embriogenesi.Il Fenoxycarb agisce anche a livello degli adulti alterandone la fertilità e la regolarità dello sviluppo. Altri Juvenoidi, non registrati in Italia, ma sperimemtati ed utillizzati in altri paesi contro alcuni insetti , sono:il Methoprene (su Ditteri e Coleotteri), il Kinoprene ( contro Rincoti Omotteri) e l'Hydroprene (contro Blattodei, Coleotteri ed Omotteri).
3 Composti acceleratori della muta ( MAC),
da alcuni anni è registrato in Italia una sostanza attiva chiamata TEBUFENOZIDE, è una sostanza inclusa tra i composti acceleratori della muta (MAC). E il capostipide dei MAC, sostanze che inducono mute premature simulando l'azione dell'ecdisone con risultati mortali per le larve.
Il Tebufenozide ha evidenziato una buona attività sperimentale contro le larve di alcuni Lepidotteri. L'azione biologica di Tebufenozide si esplica simulando le profonde modificazione morfo-fisiologiche indotte dall'ecdisone, quindi scatenando una muta anticipata in un momento in cui l'insetto non è "pronto". Il prodotto agisce per ingestione e solo sugli stadi larvali rd è selettivo nei confronti di insetti utili ed acari predatori. E in fase di registrazione un altro prodotto MAC,si tratta del Metossifenozide, sostanza con caratteristiche analoghe al Tebufenozide.

Tratto dal libro di testo "Ecologia Applicata" (Ferrari, Marcon, Menta - ed. Edagricole)

Fare il vino: Il mosto

La produzione del mosto rappresenta la prima fase di lavorazione in cantina, un'operazione che inizia con la selezione e la spremitura dei grappoli dell'uva. Dal punto di vista tecnico, il mosto è il prodotto che si ricava dall'uva fresca o ammostata - con o senza raspi e bucce - attraverso i procedimenti meccanici della pigiatura, sgrondatura e torchiatura. Se si considera il mosto come il risultato della spremitura delle uve senza ulteriori procedimenti, esso è composto per l'80-85% dalla polpa, 10-15% di bucce, 5% di vinaccioli o semi. Durante la fase della pigiatura - che consiste nello schiacciamento degli acini - si esegue generalmente anche la cosiddetta diraspatura, cioè la separazione dei raspi con lo scopo di non arricchire eccessivamente il mosto di tannini ruvidi: un'operazione praticamente indispensabile per i mosti destinati alla produzione di vini bianchi. Il mosto è la frazione liquida del pigiato dell'uva - il succo - composta per il 70-80% di acqua, 10-30% di zuccheri (prevalentemente fruttosio e glucosio) oltre a sostanze minerali, azotate (inorganiche e proteiche), polifenoli (tannini e sostanze coloranti) e acidi organici. La vinaccia è invece la frazione solida del pigiato dell'uva composta dalle parti fibrose della polpa, semi e buccia.
L'analisi condotta sul mosto rileva inoltre la presenza di lieviti, sia perché questi sono naturalmente presenti nell'aria, sia perché - e soprattutto - si trovano nella pruina, lo strato superficiale opaco e biancastro che ricopre la buccia dell'acino dell'uva. Le sostanze acide - anche se normalmente poco percettibili all'assaggio a causa dell'azione di contrasto degli zuccheri - sono generalmente comprese fra i valori di pH 2,7 e 3,5, indispensabili per un regolare svolgimento della fermentazione. Nel mosto si trovano anche vitamine dei gruppi A, B e C, sostanze minerali (potassio, calcio, magnesio, sodio, fosfati, solfati, cloruri, ferro e rame) utili per il regolare andamento della fermentazione e per la stabilità e la limpidezza del vino. Di particolare importanza è la presenza di sostanze azotate, indispensabili allo sviluppo dei lieviti responsabili della fermentazione alcolica. Queste sostanze, al termine della fermentazione, si trasformeranno in componenti aromatici, alcune delle quali molto importanti per l'aroma complessivo del vino. Nonostante il loro importante ruolo, l'eccessiva presenza di sostanze azotate nel mosto può provocare intorbidamenti al vino oltre a compromettere la sua stabilità.


http://www.diwinetaste.com/dwt/it2006126.php

Olea europea

(Olea europaea L.) è una pianta da frutto. Originaria del Medioriente, è utilizzata fin dall'antichità per l'alimentazione. I suoi frutti, le olive, sono impiegate per l'estrazione dell'olio e, in misura minore, per l'impiego diretto nell'alimentazione. A causa del sapore amaro dovuto al contenuto in polifenoli, l'uso delle olive nell'alimentazione richiede però trattamenti specifici finalizzati alla deamarizzazione, realizzata con metodi vari.


descrizione botanica


Abbozzi delle infiorescenze o mignole

L'olivo appartiene alla famiglia delle Oleaceae. La pianta comincia a fruttificare verso il 3°-4° anno, inizia la piena produttività verso il 9°-10° anno; la maturità è raggiunta dopo i 50 anni. È una pianta longeva: in condizioni climatiche favorevoli un olivo può vivere anche mille anni. Le radici, per lo più di tipo avventizio, sono molto superficiali ed espanse, in genere non si spingono mai oltre i 60-100 cm di profondità.

Il fusto è cilindrico e contorto, con corteccia di colore grigio o grigio scuro, il legno è molto duro e pesante. La ceppaia forma delle strutture globose, dette ovoli, da cui sono emessi ogni anno numerosi polloni basali. La chioma ha una forma conica, con branche fruttifere pendule o patenti (disposte orizzontalmente rispetto al fusto)secondo la varietà.

È una pianta sempreverde, la cui attività è pressoché continua con attenuazione nel periodo invernale. Le foglie sono coriacee, semplici, intere, ellittico-lanceolate, con picciolo corto e margine intero, spesso revoluto. La pagina inferiore è bianco-tomentosa. Le gemme sono per lo più di tipo ascellare.

Il fiore è ermafrodito, piccolo, con calice di 4 sepali e corolla di petali bianchi. I fiori sono raggruppati in numero di 10-15 in infiorescenze a grappolo, chiamate mignole, emesse all'ascella delle foglie dei rametti dell'anno precedente. La mignolatura ha inizio verso marzo-aprile. La fioritura vera e propria avviene, secondo le cultivar e le zone, da maggio alla prima metà di giugno.

Il frutto è una drupa globosa, ellissoidale o ovoidale, a volte asimmetrica, del peso di 1-6 grammi secondo la varietà, la tecnica colturale adottata e l'andamento climatico.


venerdì 12 dicembre 2008

Quercus suber - Decorticazione

L'asportazione del sughero è un'operazione periodica che si esegue a cicli decennali su piante che hanno almeno 15-20 anni d'età. Il sughero maschio non ha valore a causa dell'eccessiva irregolarità e porosità, perciò è utilizzato per trasformazioni di secondaria importanza. Dopo il primo taglio, la pianta produrrà sughero femmina, destinato principalmente alla produzione di tappi di bottiglia. Il sughero femmina si asporta ogni 9-15 anni, quando il sughero raggiunge uno spessore di circa 5 cm. In ogni modo l'asportazione del sughero si ripercuote in qualche misura sulla longevità, perciò una sughera sottoposta sistematicamente alla decorticazione non supera in genere i 100-150 anni di durata.
Il taglio del sughero si pratica manualmente con i metodi tradizionali, usando apposite accette. L'operazione si esegue da maggio a luglio e richiede perizia ed esperienza in quanto il taglio deve arrivare al fellogeno senza interessare gli strati più interni della corteccia (felloderma e libro). Tagli male eseguiti infatti compromettono la vitalità della sughera.

Vite: forme di allevamento e pratiche colturali

La viticoltura Italiana è caratterizzata da una notevole varietà di ambienti pedoclimatici, di vitigni, di portainnesti e di tradizioni locali che hanno contribuito alla diffusione di numerosi sistemi di allevamento e potatura. I principali sistemi di allevamento sono: Alberello, Guyot, Capovolto, Cordone Speronato, Syloz, Pergola Trentina, Pergola Veronese e Romagnola, Tendone etc.
Riguardo alla potatura di produzione, le operazioni si distinguono in: potatura secca o invernale e potatura verde o estiva. La concimazione è di fondamentale importanza nella coltura della vite, utile sarebbe quella organica periodica, sotto forma di letamazione o sovescio di leguminose; basilare è quella minerale basata su concimi azotati, potassici e fosfatici. Per quanto riguarda il terreno, questo può essere tenuto libero mediante periodiche lavorazioni, inerbito oppure inerbito nell'interfila e diserbo lungo il filare. L'inerbito presenta diversi vantaggi quali: la facilità di accesso delle macchine, la riduzione dell'attività di erosione delle acque meteoriche, la mancata formazione della suola di lavorazione, le minori escursioni termiche.





http://www.agraria.org/coltivazioniarboree/vite.htm

MOSCA DELL'OLIVO



In quasi tutte le aree in cui è coltivato l’olivo c’è un nemico quasi invisibile che agisce indisturbato. Si tratta del parassita più pericoloso della coltura olivo, la mosca delle olive (Bactrocera oleae).

La mosca dell’ulivo è simile alle altre mosche che colpiscono la frutta con dimensioni di circa 4-5 mm, facilmente riconoscibile dal "puntino" nero presente all’apice delle ali (vedi figura a lato). Il clima gioca un ruolo importante per lo sviluppo di questa specie che sono diverse per i singoli stadi di vita di questo insetto (tre stadi larvali). Le condizioni di temperatura ideale di questo insetto sono quelle comprese tra 22-30°C. Il periodo di pre-ovideposizione delle femmine neosfarfallate è di circa 5-7 giorni alla temperatura di 25°C, mentre la durata dello stadio di uovo, larva e pupa è rispettivamente di 3, 14 e 15 giorni. Gli adulti della mosca diventano attivi solo quando la temperatura supera i 14° C e si arresta allorquando questa supera i 31-33 °C. Va sottolineato che il perdurare di giornate estive caratterizzate da alte temperature (maggiori di 31°C), bassa umidità ed assenza di pioggia causano un'elevata mortalità delle uova e delle larve presenti all'interno dei frutti.

La mosca dell'olivo sverna prevalentemente allo stadio di pupa nelle drupe rimaste sulla pianta o nel terreno, i primi voli si possono già avvistare nei mesi di Aprile Maggio (dipende in quale regione italiana ci troviamo), tuttavia va aggiunto che nelle aree a clima caldo, possono svernare e sopravvivere anche per 7 mesi. La femmina non ovidepone finché le olive non hanno raggiunto un diametro di 7-8 mm e comunque non prima della fase fenologica dell'indurimento del nocciolo.

Dopo l'ovideposizione, che avviene praticando una puntura sulla buccia dell'oliva nella quale viene lasciato un solo uovo nella cavità sottostante, si sviluppa la larva. La schiusura dell’uovo avviene dopo un periodo variabile e strettamente legato alle condizioni climatiche, nel periodo estivo circa 2-3 giorni mentre nel periodo autunnale circa dieci giorni. Con la nascita della larva che supera tre stadi larvali all’interno dell’oliva nutrendosi della polpa, inizia l’attività trofica all’interno dell’oliva. E’ qui che iniziano i danni temuti da tutti gli olivicoltori. Infatti la larva in questa fase scava gallerie per nutrirsi innescando cosi una serie di indebolimenti del frutto. Con la fuoriuscita dell’adulto dal frutto che avviene nell’ultimo stadio, è visibile il foro di uscita che permette all’aria di penetrare all’interno dell’oliva ossidandola e rendendola debole.

I danni provocati dalla mosca dell’olivo sono sostanzialmente tre:
- distruzione diretta della polpa di cui si alimentano le larve
- caduta dei frutti infestati (cascola)
- alterazione della qualità delle olive con conseguenze sulla qualità dell’olio che se ne ottiene.

La lotta alla mosca dell’olivo
Quando le olive con punture fertili, cioè con presenza di uova o giovani larve, raggiunge il 10% del campione preso in esame, è conveniente eseguire un trattamento. Un campione attendibile può essere formato da 100 olive recuperata su 10 piante prensenti su una coltivazione di un ettaro.

Trattamenti mosca dell’olivo
I trattamenti applicati contro la mosca dell’olivo sono sostanzialmente tre:
• - trattamenti chimici
• - lotta biologica ed integrata
• - lotta biotecnica


Bisogna valutare attentamente il fenomeno di attacco, è molto importante orientarsi in base all’entità della presenza di adulti e al tipo di punture. Nelle zone in cui l’attacco della mosca olivo è tardivo e di limitata intensità, come per esempio in alcune aree del sud Italia in zone di alta collina, si può ricorrere alla lotta biotecnica, che consiste nella cattura massale mediante trappole, che vanno posizionate sin dalla prima comparsa degli adulti, in modo da tenerne bassa la popolazione. Questo tipo di cattura, mediante trappole, è inutile in oliveti di piccole dimensioni mentre inizia ad essere efficace in oliveti con superficie superiore a 4-5 ettari. Se l’entità, la presenza di adulti e il tipo di punture, è di maggiore intensità, si potrà valutare l’opportunità di interventi con repellenti o prodotti chimici convenzionali. In agricoltura biologica, bisogna adoperare pesticidi naturali o comunque quelli ammessi per questo tipo di olivicoltura, e in ogni caso cercando di scegliere quelli che presentano un basso impatto ambientale. Si vuole segnalare anche il metodo di lotta antibatterico, che si è dimostrato abbastanza efficace se usato tempestivamente, specie quando si utilizzano mix di rame e propoli, e i classici presidi fitosanitari, quali il dimetoato o la deltametina che presenta un basso impatto ambientale.

La continua ricerca di metodi per contrastare in modo efficace la mosca dell’olivo, sono orientate verso metodi che richiedano sempre di più, un limitato numero di interventi e un basso impatto ambientale. Verso questa via entrano in gioco i cosiddetti insetti utili antagonisti della mosca. Un insetto che si è dimostrato antagonista ed efficace nel limitare i danni provocati dalla mosca olivo, è il Psytallia concolor, un insetto esotico che è stato importato e pare adattarsi bene al clima italiano. Un altro insetto che viene sperimentato come antagonista e che ha dimostrato di poter diventare un nuovo efficace agente di controllo è il Fopius Arisanus, che trova il suo ambiente di sopravvivenza ideale in condizioni climatiche caldo-secche quindi abbastanza adattabile al clima del mezzogiorno d’italia. Naturalmente la ricerca in questo senso continua con i suoi esperimenti legando sempre di più l’assoluta difesa dell’ambiente.

Quercus suber

La sughera (Quercus suber L.) è una specie sempreverde del genere Quercus. Originaria dell'Europa sud-occidentale e dell'Africa nord-occidentale è da tempi remoti naturalizzata e spontanea in tutto il bacino occidentale del mar Mediterraneo.
La sughera ha un portamento arboreo, con altezza che può raggiungere i 20 metri e chioma lassa ed espansa. La vita media è di 250-300 anni, diminuisce negli esemplari sfruttati per il sughero. La caratteristica più evidente di questa specie è il notevole sviluppo in spessore del ritidoma, che non si distacca mai dalla corteccia, formando un rivestimento suberoso detto in termine commerciale sughero. lI sughero si presenta di colore grigio-rossastro nei rami di alcuni anni d'età, dapprima con screpolature grigio-chiare, poi sempre più larghe e irregolari a causa della trazione tangenziale provocata dall'accrescimento in diametro del fusto. Dopo diversi anni il sughero forma una copertura irregolare e spugnosa di colore grigio, detta comunemente sugherone o sughero maschio. Dopo la rimozione del sughero maschio, il fellogeno produce ogni anno nuovi strati di tessuto suberoso che formano un rivestimento più compatto e più regolare, detto sughero femmina o gentile, con una fitta screpolatura prevalentemente longitudinale e meno profonda. L'anno in cui viene rimosso il sughero, il fusto ha un marcato colore rosso-mattone che nel tempo vira al rosso-bruno fino al bruno scuro quando il sughero femmina ha già raggiunto uno spessore significativo. Le foglie sono verdi e coriacee, tomentose sulla pagina inferiore, generalmente piccole negli ambienti secchi, più grandi in quelli più freschi. Sono brevemente picciolate e hanno una lamina di forma variabile da ovata a oblunga. Il margine è generalmente dentato e spinoso, ma può presentarsi anche intero nella pianta adulta, più o meno revoluto.
La fioritura è in maggio-giugno. Il frutto è una ghianda ovale di colore verde quando è immatura, bruna a maturità, lunga fino a 3 cm con apice molto breve. La cupola è più conica rispetto a quella del leccio, ricopre la ghianda per una lunghezza variabile da un terzo a metà, con squame grigio-verdastre, patenti, a volte retroflesse.La sughera è una specie termofila che predilige gli ambienti caldi e moderatamente siccitosi. Rifugge gli ambienti di siccità estrema o soggetti a frequenti gelate invernali. Vegeta prevalentemente su suoli derivati da rocce a matrice acida (graniti e granitoidi, trachiti, scisti granitici, filladi), diventando sporadica nei suoli basaltici e in quelli calcarei. In Italia vegeta nella sottozona calda del Lauretum spingendosi fino ai 900 metri d'altitudine. È particolarmente diffusa in Sardegna, Sicilia, lungo la fascia costiera meridionale della Toscana e nelle limitrofe aree pianeggianti e collinari della Maremma grossetana; risulta più sporadica nel Lazio e in Puglia.

lunedì 1 dicembre 2008

Fumaggine

È una malattia causata da diversi funghi che sviluppano sulla vegetazione degli olivi, soprattutto sulle foglie e sulla corteccia dei giovani rami, ricoprendoli con una sottile crosta nero-fuligginosa, da cui il nome. Provoca danni alla vegetazione, alla fioritura e alla produzione. Viene combattuta con i trattamenti rameici effettuati contro l'occhio di pavone o, eventualmente, eseguiti appositamente.